Osservando il capitalismo italiano, è evidente come questo stia cambiando anche geometricamente, perdendo la tradizionale forma a piramide per acquisire quella a trapezio. In altre parole, il vertice sparisce e il baricentro si sposta in basso. Possiamo quindi affermare che dopo 13 anni di euro e 7 di grande depressione, gli imprenditori italiani non sono riusciti a crescere per reggere il confronto internazionale, considerata la consistenza dell’elenco di grandi aziende passate in mano straniera.

Eppure… eppure continuiamo a rappresentare la seconda manifattura d’Europa. Il che significa che le piccole industrie in fondo così peregrine non sono e che magari quel che serve davvero è ripensare le linee di politica economica, spesso, troppo spesso, disegnate a misura di grande impresa (pensiamo al taglio minimo di 250.000 euro del bando regionale sugli investimenti in innovazione…).

Ma scendendo sul lato basso del trapezio troviamo anche quelle imprese che qualcuno ha definito come il “capitalismo popolare italiano” e che rappresenta una grande risorsa in termini culturali, oltre che un fattore decisivo per la tenuta dei territori, una forza produttiva che riesce dare forma compiuta all’individualismo italiano.

Ecco, anche di queste ultime è necessario non dimenticarsi se si vuole davvero fare qualcosa per sostenere quello che sino ad oggi ha dimostrato di essere il vero motore del Paese.