È stallo sul “Made in”, un dialogo tra sordi, a tratti surreale. Il Consiglio competitività, di fatto la riunione dei ministri del commercio dei 28 Paesi membri, ieri a Bruxelles, è stato la fotografia della spaccatura, apparentemente insanabile, che da mesi mostrano i governi degli Stati membri. Con una via di fuga dall’impasse, ufficiosamente, emersa dopo la riunione.

Ma andiamo con ordine. Sull’obbligo di etichettatura di origine per i prodotti non alimentari in circolazione nella Unione europea, resta, da un lato, il fronte a favore della tracciabilità dei beni, guidato dall’Italia e sostenuto da Francia, Croazia, Grecia, Spagna, Portogallo e, con un ripensamento degli ultimi giorni, anche Polonia. Mentre il fronte del no a qualunque obbligo di etichettatura resta graniticamente composto da Germania, Belgio, Gran Bretagna, Svezia, Olanda, Irlanda e Danimarca. La maggioranza dice no all’etichetta obbligatoria. La minoranza blocca e si dice disponibile a difenderla per 5 settori: tessile, arredo e oreficeria, oltre a calzature e ceramica.

«L’Italia – ha sottolineato il vice ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, che per primo ha preso la parola all’inizio dei lavori – è pronta a un compromesso che ho difficoltà a definire ragionevole, ma che deve almeno includere i settori di ceramica, calzature, gioielleria, tessile e legno-arredo, con una clausola di revisione dopo tre anni dall’entrata in vigore del regolamento», avvertendo che senza l’articolo 7 sul Made in «che abbia queste caratteristiche noi non potremo mai approvare il pacchetto» sulla sicurezza dei prodotti nel suo complesso.

Fonte: Sole 24 ore