Sono particolarmente lieto di aver partecipato nuovamente a un incontro di CNA Industria Modena. Dopo quello dello scorso anno sul passaggio generazionale, eccoci a discutere – come abbiamo fatto giovedì 1° ottobre – della “guerra delle monete” e delle sue implicazioni per la “rivoluzione dei mercati”.
Certo, in giro per il mondo accadono sempre delle cose ma il tempo presente ci offre un ventaglio di temi (o questioni aperte) che, così tutti insieme, raramente si sono visti nel recente passato. Il semplice elenco dei temi posti sul tappeto è, a dir poco, impressionante: la crisi della Grecia; la svalutazione della moneta cinese; il probabile aumento dei tassi Usa entro la fine dell’anno; il QE della Banca Centrale Europea dopo quello della Federal Reserve; il “dieselgate” o scandalo Vw … ma anche l’ottimo andamento dell’export modenese. Insomma, ce n’è abbastanza per trovare conferma, una volta di più, del noto “effetto farfalla” (“Un battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas”), che dalla meteorologia possiamo passare facilmente ad applicare all’economia, tali e tanti sono i fili che tengono uniti i mercati di tutto il mondo.

Tragedia greca, scandalo Vw e svalutazione dello yuan – per fermarci a questi tre – sono fatti politici e/o economici naturalmente assai diversi fra loro: ma tutti toccano tutti, benché in gradi diversi. Quando le autorità cinesi in un giorno d’estate hanno deciso la prima svalutazione (nell’ordine dell’1,9% sul dollaro, poi arrotondata all’insù verso il 3% nei giorni seguenti) hanno effettuato la stessa mossa che, in tempi più lunghi e in misura più consistente, già avevano fatto l’Europa e il Giappone con la svalutazione dell’euro e dello yen sempre sul dollaro. C’è dietro questa mossa cinese il calo dell’export, visibile da un po’ di tempo? Probabilmente sì, anzi certamente sì. Ma scavando sotto la superficie – come ha fatto Maurizio Scarpari nel suo illuminante libro sul “confucianesimo” del XXI secolo: Ritorno a Confucio (Bologna, Il Mulino 2015) – apprendiamo che in quel gigantesco paese sono in atto sommovimenti ben più strategici di un ritocco del tasso di cambio.

Scrive Scarpari: “Per rafforzare il proprio consenso interno e migliorare l’immagine della Cina sullo scacchiere internazionale, il Partito comunista guarda con rinnovato interesse alle radici del suo patrimonio culturale, riscoprendo i principi etici del confucianesimo, garanti del ‘buon governo’ e di quella ‘società armoniosa’ che hanno caratterizzato l’impero per oltre duemila anni”.
E in Occidente? Che cosa c’è di nuovo in America e in Europa? I saggi di crescita delle due principali economie mondiali, assieme alla Cina, raccontano due storie molto diverse quanto a dinamismo del Pil: sfiora il 4% quello americano (un dato strepitoso per un’economia già molto ricca, anche in termini di Pil-pro capite), non arriva al 2% quello dell’Eurozona. D’altro canto, l’Europa sopravanza gli Usa come potenza commerciale, in primis per la sua eccellente capacità di esportare e di generare un surplus.

Crediamo che non casualmente il commercio internazionale sia una di quelle aree di policy ove l’Europa – nel senso di UE – parla, come si dice in gergo, con “una voce sola”: all’OMC di Ginevra (ciò che era un tempo il GATT) non vanno i 28 Stati membri ma va, in nome e per conto di tutt’e Ventotto, il Commissario europeo al Commercio internazionale. Non accade la stessa cosa in tante altre aree di policy, a cominciare da quella che ha a che fare con un autentico bilancio (budget) comunitario capace, innanzitutto, di svolgere una funzione di riequilibrio durante le crisi (shock). L’UE non ha saputo (o voluto) affrontare per tale via la crisi esplosa in Grecia nel 2010, un’economia che vale qualche punto del Pil complessivo dell’Unione: si sarebbero, come minimo, evitate sofferenze gigantesche alla popolazione. Qualcosa a Bruxelles si sta muovendo, dopo questi anni di errori e omissioni, e c’è da augurarsi che la direzione di marcia vada verso un trasferimento di poteri e risorse dagli Stati-nazione al livello sopranazionale di governo in aree sensibili come la politica di bilancio e fiscale, oltreché – ça va sans dire – nell’immigrazione.

Da ultimo, una considerazione che sembra unire le due sponde dell’Atlantico, pur così diverse fra loro in molti aspetti istituzionali, strutturali e culturali. Le élite di ispirazione liberal stanno con forza riproponendo, dopo decenni di silenzio sull’argomento, il tema della distribuzione dei redditi e della ricchezza, che si è fatta eccessivamente diseguale un po’ dappertutto. Dopo i lavori dei premi Nobel Krugman e Stiglitz, dopo il best-seller del giovane economista francese Piketty, è ora la volta di Robert Reich, autorevole economista e già brillante Ministro del Lavoro nella prima Amministrazione Clinton (1993-’97). Egli ha da poco pubblicato il suo ultimo libro – Come salvare il capitalismo (Roma, Fazi editore 2015) – riferito in primis agli Usa, dove egli fra l’altro scrive: “Dimenticate la diffusa convinzione che si tratti [il capitalismo, ndt] di un sistema meritocratico in cui chiunque, se lavora davvero sodo, può farcela (…) Dimenticate soprattutto l’idea che il mercato sia così com’è perché la sua razionalità intrinseca l’ha plasmato nel migliore dei modi possibili (…) Per modificare le regole affinché soddisfino i loro bisogni, i cittadini devono allora riguadagnare un potere che faccia da contrappeso a quello dei super-ricchi”.
Siamo così sicuri che questo compito “titanico” (parola di Reich) riguardi solo gli USA?

Franco Mosconi, Professore di Economia Industriale, Università di Parma